La scalata dello yuan
Questo è il primo di tre articoli in cui si tenterà di mettere ordine nel caos geopolitico mondiale, così da fissare alcuni punti fermi.
A partire da alcune linee di tendenza, potremo iniziare una riflessione sul ruolo dell’Italia nell’attuale scenario globale, tenendo come bussola la sovranità nazionale, continuamente erosa negli ultimi decenni dai meccanismi della cosiddetta “globalizzazione”.
Scriveva nel 2009 lo studioso Gianfranco La Grassa che “nel giro di una quindicina d’anni la situazione è completamente mutata, tanto da essere irriconoscibile […] Non esiste più una guerra di posizione ma di pieno movimento. C’è stata all’inizio l’illusione ottica dell’ormai realizzato monocentrismo statunitense, con questo Paese in piena “arroganza di potere” e quindi militarmente aggressivo […] Alla fine della guerra di posizione, in cui uno dei due campi [l’Unione Sovietica] non era però in grado di tenere la posizione [è subentrata invece] una guerra di movimento, con più attori in gioco, e in rafforzamento“.
Si tratta di quello che lo stesso La Grassa chiama “policentrismo capitalistico”, dato che il predominio economico e finanziario americano, pur sostenuto ancora da un predominio militare evidente, è insidiato da nuovi attori economici globali, e su tutti la Cina, l’India e la Germania, con la Russia post-sovietica nel ruolo di fornitore primario di risorse energetiche e garante militare di un blocco anti-atlantico in faticosa costruzione.
In questo senso è interessante registrare alcuni eventi geopolitici più o meno recenti.
Innanzitutto la fondazione di una Banca per gli investimenti alternativa alle istituzioni internazionali a guida Usa, cioè la cosiddetta “Banca dei Brics“, con una dotazione iniziale di 100 miliardi di dollari, a cui la Cina contribuisce con 41 miliardi e la Russia con 18 miliardi. È verosimile che il nuovo istituto collabori in futuro con la neonata Banca Asiatica per gli Investimenti e le Infrastrutture (AIIB, operativa dal 16 gennaio), nella quale i primi contribuenti sono Cina (con potere di veto), Russia, Germania e India, ed è presente anche l’Italia. La valuta selezionata dalle due banche di sviluppo sarà con ogni probabilità lo yuan/renminbi cinese, che di recente il FMI ha dovuto inserire nel paniere delle sue monete di riserva. Nel rapporto annuale al Congresso il Governo americano osserva con preoccupazione che “la creazione della AIIB e di altre simili organizzazioni potrebbero erodere il predominio degli Stati Uniti e delle sue consolidate istituzioni politiche ed economiche internazionali”.
Il tentativo della moneta cinese di scalare posizioni e imporsi come seria alternativa al dollaro è sostenuto anche da una serie di altre importanti iniziative. Il 18 novembre 2015 è partito infatti il primo mercato azionario in yuan al di fuori della Cina continentale (il CEINEX), e non a caso si trova in Germania, presso la borsa di Francoforte. Poco meno di due mesi prima, il 30 settembre, la Banca centrale cinese ha avviato la procedura di smarcamento dal dollaro, puntando alla piena convertibilità dello yuan entro il 2020, e secondo un’agenzia di marzo di Reuters “è pronto a partire il CIPS (China International Payment System)”. Nell’aprile dell’anno scorso, inoltre, è stato aperto il Renminbi Qatar Center, al fine di approfondire il legame finanziario tra Cina, Qatar, sud-est asiatico e nord Africa. E ancora: la multinazionale russa del gas, Gazprom, dal 2015 ha iniziato a vendere petrolio alla Cina accettando yuan invece che dollari. Le dimensioni dell’affare sono simboliche (1 miliardo di dollari sui circa 200 che la Russia ha ricavato dalle esportazioni di greggio), ma il processo di sganciamento dalla moneta americana è appena cominciato, e nel solo 2015 lo yuan ha guadagnato due posizioni imponendosi come la quinta valuta al mondo per pagamenti internazionali.
La tendenza “autonomista” dello yuan potrebbe avere effetti dirompenti sugli equilibri economico-finanziari globali. Va detto, infatti, che il persistente avanzo commerciale della Cina ha consentito al Dragone di mettere a riserva negli anni migliaia di miliardi di dollari, in parte reinvestiti in titoli di Stato americani, tanto che la Cina, con il 20% del debito estero americano, è oggi il primo creditore degli Stati Uniti insieme al Giappone. Ma i cambiamenti strutturali dell’economia cinese, con l’innalzamento dei salari medi e la necessità di aumentare le importazioni, soprattutto energetiche, hanno reso obsoleto il cambio fisso tra dollaro e yuan e impongono alla Cina di sostenere il tasso di cambio, con l’effetto di erodere gradualmente le riserve valutarie, scese dall’equivalente di 3 mila e 900 miliardi di dollari nel 2014 a 3 mila e 330 miliardi di dollari del 31 dicembre 2015. Da valutare in questo senso il comportamento della bilancia commerciale statunitense, che per 40 anni, dal 1976 ad oggi, è sempre stata in forte deficit.
Siamo quindi in una fase di instabilità e ricomposizione, dato che l’impetuosa crescita cinese, trainata tuttora dal massiccio uso del carbone interno, proietta il gigante cinese verso i mercati del futuro, imponendo un riassetto globale degli equilibri economici e finanziari consolidati. In questa transizione imprevedibile il fronte valutario è decisivo, ma non è l’unico e nemmeno il principale. Nei prossimi articoli parleremo di risorse minerarie, energia, commercio, medio-oriente e potenze militari, inquadrando meglio la politica strategica delle altre due potenze che potrebbero comporre un blocco alternativo a quello americano: Russia e Germania.