Il diario da Kabul
Nella primavera del 2003, sfogliando un giornale, ho letto che Emergency cercava ingegneri volontari per la costruzione di ospedali in Afghanistan. Ho inviato la mia disponibilità e a luglio sono partito per Kabul. Nei due mesi e mezzo di permanenza ho collaborato alla costruzione dell’ospedale di Kabul e alla realizzazione di progetti in Panscjir.
L’anno dopo ho lavorato alla progettazione del centro di cardiochirurgia Salam di Khartoum in Sudan.
Ogni giorno che passava cercavo di entrare sempre più nello spirito del luogo, cercavo di trarre il più possibile da quella esperienza umana incredibile. Per non rischiare di dimenticare, scrivevo a Lucia, ora mia moglie, le impressioni di ogni giorno.
Da quei racconti è nato questo diario.
5 luglio 2003
Napoli, ore 9,45 (volo cancellato delle 9.00 e sostituito con altro alpieagles), partenza per Milano Linate. A via Orefici (sede Emergency) incontro con Mario e con Sandro Ferrara (58 anni, nonno tre volte, perito chimico, quinta missione, altre quattro in africa, compagno di viaggio).
Kabul, Afghanistan.
Sera.
Restiamo a parlare fino a tardi.
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Qui ci sono più di mille organizzazioni umanitarie. Ci sono molti occidentali. Gli afgani hanno alzato i prezzi in maniera impressionante. Da dopo la guerra l’inflazione è superiore al 3000 % (trenta volte di più). Una casa da affittare costa 150-200 euro. Lo stipendio di un medico afgano che lavora all’ospedale pubblico (un primario) è di circa 40 $.
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8 luglio 2003
Ore 12.00. Giornata calda ed indaffarata. Massimo, che è qui da cinque mesi ed è un infermiere specializzato in area critica, è l’addetto a quella parte del programma sociale che prevede il supporto ai prigionieri reclusi nelle carceri. Lo scopo è di fornire ai detenuti prestazioni mediche e pasti (per quelli più malnutriti). Emergency è l’unica ONG che è stata autorizzata dal governo afgano ad avere accesso alle galere ed ad aver contatto con i detenuti.
Oggi il genovese Massimo (detto kalanderi) deve andare a distribuire dei generi di conforto. La distribuzione di questi pacchi (una busta di plastica nera con dentro un paio di scarpe, zucchero, asciugamano, gallette proteiche ecc…) avviene ogni volta che è possibile, compatibilmente con le esigenze di bilancio ed in media con cadenza quadrimestrale. Ho avuto la possibilità di accompagnarlo e sono andato a dargli una mano nella distribuzione. Dall’ospedale, che è la nostra base operativa partiamo in sei. Tra gli altri Amin che è il responsabile nazionale afgano del programma prigionieri. Occhiali neri, gilet di pelle nera, baffi, piuttosto ben vestito: potrebbe un tipico commerciante abbronzato meridionale. Abbiamo visto due carceri: la prima con detenuti politici e persone arrestate in attesa di giudizio (250) e la seconda con detenuti “comuni” (50). C’è anche un’alta prigione a Kabul con settecento reclusi ma non ci andiamo oggi.
Il direttore ci accoglie all’ingresso. Amin si muove con destrezza. Alcuni reclusi vengono a prendere le buste dal nostro pulmino e le scaricano in due celle. Una per piano. Entriamo e vediamo un lungo corridoio con pavimento in cemento e soffitto in di tela di sacco color marrone. Una lampada a filamento ogni dieci metri illumina l’ambiente con una fioca luce giallastra. Entro nella cella dove sono depositati i pacchi. Ha dimensioni due metri per tre. Per terra una specie di moquette rossa a righe nere copre il pavimento. Non ci sono letti: gli afgani dormono per terra con un cuscino. Si iniziano ad aprire le celle. Vengono fuori a quattro o cinque alla volta. Kalanderi mi precisa che alcune celle sono un po’ più grandi. I visi sono vuoti, né rabbiosi né entusiasti, vuoti. Qualcuno ringrazia, altri hanno paura ad uscire dalla cella, altri sono incatenati. Hanno una specie di manette ai piedi che gli permettono solo piccoli brevi passi. Alcuni hanno una catena più lunga. Uno ha le manette sia ai piedi che alle mani e non riesce ad uscire dalla cella. Cappelli, barbe, capelli incolti, età in massima parte tra i diciotto ed i trenta. Mentre terminiamo la distribuzione al piano terra vediamo uno diverso dagli altri. Sembra uno passato lì per caso: ha una borsa di fibra di plastica con degli oggetti dentro, sale al piano superiore passando per i cancelli aperti come una guardia e kalanderi lo saluta e tutti sembrano trattarlo come uno di loro. E’ un prigioniero in attesa di giudizio da quindici anni. Prima dell’arresto era una persona molto importante a Kabul (credo il capo della polizia nonché ex ambasciatore in india) ed è accusato di aver ordinato l’omicidio di oltre duecento persone.
Quello si nota è che tutti hanno rispetto per Emergency: è come se fossero grati per quel piccolo gesto, quella piccola busta, per le cure che prestano. Il capo della prigione è molto tranquillo e persino affabile nei modi ed anche i detenuti sono tranquilli e fanno la fila per la loro busta.
Prima di andar via dal pulmino scarichiamo altre diciotto buste. Sono per le guardie Tutto il mondo è paese, tutti quanti “amma campà”.
L’altro carcere ha un aspetto più moderno. Qui Emergency ha un infermeria interna. Il primo a farsi visitare è il direttore. Massimo diagnostica una sciatalgia. Arrivano poi tre reclusi: pleurite, ipertensione, dolori articolari. Chiedo quali siano le malattie più gravi: tubercolosi, sifilide, gonorrea. Con un programma di separazione dei prigionieri e di controllo costante sono riusciti a ridurre a pochi i casi di TBC. Quello con la pressione alta (130 di minima) ha probabilmente preso molto sale per alzarla e venire in infermeria. Alcuni si fanno male da soli per andare in ospedale. Mentre Massimo-Kalanderi visita vado con Amin a distribuire i pacchi. Le celle sono al piano seminterrato e sono molto umide. Si affacciano tutte sul solito corridoio dalla luce fioca. In uno dei bagni (due in tutto) il lavandino è staccato dalla parete ed è a terra. Dovremmo provvedere a metterlo a posto (non è la prima volta che emergency interviene sui bagni e non sarà neanche l’ultima).
Ritorno in infermeria e massimo sta sgridando il responsabile medico della prigione perché trascura i prigionieri. Concentra di più i suoi sforzi sui capi e sul personale di guardia. Domani ritornerà a controllare che siano state attuate le sue disposizioni.
Lasciamo anche qui i pacchi per il personale di guardia, risaliamo sul pulmino e torniamo alla base.
10 luglio 2003
Prendere le misure con gli afgani è divertente (devi dirgli esattamente cosa fare e non vedi dargli la possibilità di pensare). Gli dai il metro (la rollina), gli metti il metro tra il pollice e l’indice nella giusta posizione (in modo tale che sai che devi sottrarre alla lettura i primi dieci centimetri) e gli dici non muoversi. Se non gli dici basta possono restare lì per ore!!!!. Uno fa e altri quattro guardano. Come vedi c’è un efficienza lavorativa del 20%.
13 luglio 2003
Si parla inglese ed italiano. Ci sono tre ragazzi inglesi, una francese ed il resto sono tutti italiani. La lingua ufficiale è l’inglese ed io ho ,ovviamente, qualche problema con la lingua ma li supererò in breve tempo. Qui la differenza di fuso è di +2,5 ore rispetto all’Italia. La sveglia è alle 7.30. In questi primi giorni ho lavorato come un ciuccio. Si inizia alle 8.15 e si termina alle 16.00. Sto facendo il rilievo dell’ospedale per fare alcune modifiche alla terapia intensiva ed alla sala operatoria. Io in genere finisco alle 18. Ieri alle 21.00. Mi sembra di stare a Salerno.
Emergency sta svolgendo anche una azione di sostegno ai detenuti.
I bambini per strada chiedono soldi, le donne anche. Molte portano il burka qui a Kabul e mi hanno detto che fuori dalla capitale lo portano praticamente tutte. Il ruolo della donna è un ruolo privato (in casa non lo portano), quello del maschi è il ruolo pubblico. Le donne camminano due metri dietro l’uomo. La famigli non è matriarcale ma, per esempio, koko Jalil (48 anni) per venire in Italia ha chiesto il permesso alla madre.
Moltissime persone sono ricoverate per incidenti stradali. Non sanno per niente guidare e per attraversare la strada che separa l’ospedale dalla guesthouse ci accompagna una guardia. Nessuna persona che lavora per Emergency ha un’arma.
La parola più usata è “insciallah” (se dio vuole): la lentezza di comprendonio dei locali è famigerata, non si trovano i materiali e perché (principalmente) è la filosofia del posto.
Per il resto la situazione e tranquilla anche se mi hanno detto che in alcune zone del paese si spara ancora e che molta gente gira armata.
18 luglio 2003
…… sono andato in Panscjir. Il viaggio in macchina è durato tre ore. Siamo passati per la periferia di Kabul dove c’è un grande casino. Pseudonegozi allocati in containers od in piccole baracche di legno, lavamacchine (venti uno dietro l’alto) che si impegnano in lavaggi manuali, venditori di cocomeri (quelli lunghi e verde pallido) con bambini, macellai (in baracchette di legno) con strani animali scuoiati e tagliati di colore rosso scuro (non voglio immaginare l’odore), carriole, carretti, macchine, camion. Il tutto in un brande bazar di vite mescolate. Diversi burka, principalmente di colore azzurro-blu. Autobus stracolmi con gente attaccata in bilico alle porte aperte ed altri sul tetto. Traffico.
Uscendo da Kabul un grande altipiano. Sulla destra e sulla sinistra pianure disabitate. All’inizio un campo tende di sfollati o disperati, non so. Per manto i teli dell’unhcr di colore bianco e blu. Sul lato destro sassi bianchi e rossi ad indicare le zone minate e non ancora bonificate: lato bianco sicuro, lato rosso danger. Poi dopo un pò vedi le viti: piante basse per fare l’uva. un’uva piccola, da pasto. I burka aumentano. Fuori Kabul lo hanno tutte: e’ impossibile vederne qualcuna senza. Bambini. due, tre, dieci. Le macchine vanno a destra o a sinistra: dipende dalle buche sul percorso fatte dai bombardamenti o da chissà che cosa. Anarchia alla guida. In lontananza le montagne. Ponte. Il principale sulla strada fatto saltare dai militari durante una delle tante offensive. Si passa sul lato destro su un ponte dove i piloni sono resti di carri armati russi e la passerella è in acciaio del tipo militare del corpo tecnico per attraversamenti di fortuna. Si fa la fila per passare prima uno poi l’altro. Venditori di mattoni: tutti fatti di terra ed essiccati al sole. Sulla destra il luogo dei forni: una specie di nuraghi sardi dove in fuoco brucia all’interno e cuoce i mattoni per essere venduti sulla strada. Case di terra fatte a mano dai suoi abitanti in attesa di essere aggiustate quando viene la nuova stagione dopo la pioggia. Si inizano a vedere i primi torrentelli. Molti solchi di derivazione per irrigare i campi e le piante da frutto. Strada sterrata. Ultimo paese prima della valle del panscjir. Altro ponte saltato sostituito da una struttura simile alla prima da un lato resti di autoblindo al posto dei carri armati. Sterrato tortuoso all’interno del paese. No fogne, no luce, credo no acquedotto. Gola tra pareti ripidissime colore grigio-terra. Strada di fondovalle scavata nella roccia sulla sinistra del fiume. Ora posso capire perché nessuno ha mai violato la valle con la fanteria. Posto di blocco. Sbarra che blocca il passaggio. Sulla destra un piccolo banchetto con un tettuccio di telo verde ripara alcuni mujaidin. Riconoscono Emergency. Ci salutano e ci lasciano passare. Dietro di loro, sulla terra, una serie di mine e di ordigni esplosivi. La strada e stretta e non permette il transito contemporaneo di due veicoli. Sulla destra il fiume che dà il nome alla valle: impetuoso, gorgogliante, scorre formando rapide che lo colorano di bianco. Poi la valle si apre un pò. Sulla sinistra alcuni campi coltivati fanno stridere i colori: verde brillante e marrone-grigio. Sulla roccia macchie verdastre sono testimoni di rame. Gli strati rocciosi sono verticali e tendono alla vetta.
Pecore e capre sulla strada sono condotte dai locali. Sulle pendici solo rari alberi bassi verdi scuri. Nei campi compaiono salici e gelsi. Gelsi dalla foglia larga e frastagliata, frutti da colore rosso scurissimo e dolci. E’ incredibile il ritrovare in questa valle un pezzo di Cilento. Le case sono basse, al massimo due piani, con le pareti in terra e paglia ed i solai in rami di legno coperti di fascine e terra.
I bambini ti guardano e quando la macchina rallenta fino a fermarsi si avvicinano e ti dicono “paisà”. Ti chiedi dove sei, la certezza vacilla e poi ti spiegano che paisà vuol dire moneta ed è quello che ti chiedono: moneta. I volti dei bimbi di questo paese sono la cosa più indescrivibile. Potrebbero essere usati tutti gli aggettivi ed al superlativo.
L’ospedale è una struttura in cemento armato e si staglia sull’alto del villaggio di Anabah. Solo un’altra costruzione in corso avrà la stessa struttura: è di un comandante mujaidin.
Salutiamo il driver che ci ha accompagnato ed andiamo a casa. Due guardie ci attendono e i salamelecchi di rito non si fanno aspettare. Tutto è in terra battuta e compressa. Le pareti interne sono tinte di bianco ed i gradini delle scale sono alti ed arrotondati. La cena è quasi pronta ed uno stufato di carne e cipolla ci aspetta. Appena il tempo per una sauna in una stanzetta dove una stufa a legna riscalda un ambiente di quattro metri quadrati: le pareti dipinte di smalto color avorio ed il soffitto di tela bianca. Il tavolo in giardino ci accoglie imbandito ed i 1800 metri di altitudine ci fanno sentire leggeri. Il dottor Andrea parla inglese con perfetto accento sardo. Siamo in quattordici. Cena, chiacchiera, sigaretta, vino. Il generatore, con il suo ronzio, fa da sottofondo. Mezzanotte inizia il silenzio, il buio. Il cielo è immenso, stellato come solo la mancanza di energia elettrica può dare.
24 luglio 2003
La vita dell’ospedale è in piena attività, quando arriviamo alle otto e trenta. Con la collaborazione di un’ingegnere, Junus (laureato in Russia), e di alcuni uomini della mainteinance, montiamo due macchine per l’aria condizionata.
Durante l’ora di pranzo, a mensa, vediamo un uomo con le gambe amputate all’altezza del bacino. Ha due ciabatte di plastica bianca alle mani e si muove utilizzando le mani al posto dei piedi. Ha una notevole agilità e si siede con un altro gruppo di dipendenti al tavolo. E’ il sarto dell’ospedale ed è stato assunto quando Emergency ha fatto un bando per l’assunzione di handicappati. Sorride.
Si riprende il lavoro fino alle sei. Al termine, alla luce del tramonto, noto le montagne: imponenti, brulle. Sull’altro lato del fiume un villaggio marrone: tetti piatti finestre in legno.
Guardando verso casa lo sguardo si concentra su una macchina che si allontana, su un gruppo di quattro donne in burka azzurro, su due bambini che corrono. Tutti lasciano al loro passaggio una scia di polvere che si alza e che dà l’impressione di qualcosa di antico che và, come nelle immagini di bambino quando i cow-boys e gli indiani correvano nelle praterie americane.
Un bimbo si avvicina: è Massud. Si muove nella strada in salita spingendo una carriola piena di legna. Con lui un’altro bimbo ed un’altra carriola. Li guardo e chiedo di fargli una foto. Sono tutti contenti e si mettono in posa vicino alle carriole. Poi tornano vicino e gli chiedo l’età. Massud risponde “tre anni”. Chiedo spiegazioni. Lui conta gli anni da quando sta all’ospedale. In realtà ne ha circa dodici ma il padre l’ha abbandonato e lui vive qui. Perciò dice tre. Ha un occhio distrutto e la faccia con una cicatrice che ne deforma il sorriso ma si capisce che lo sta facendo. Solo quando và via mi spiegano che ha una gamba in meno ed ha una protesi. Non me ne ero accorto. Lo guardo allontanarsi spingendo la carriola piena di legna. Si gira e mi saluta con il braccio. Continua a spingere e salire.
Casa, doccia, sauna, cena, letto. Sveglia, Condizionatori. Ore 16. Si torna a Kabul.
30 luglio 2003
E ‘ sera, abbiamo appena finito di mangiare. Oggi sono arrivati altre due persone (Mirko di Pordenone e Massimo di Firenze) che devono sostituirne altre.
Il lavoro che sto facendo (ristrutturazione del reparto terapia intensiva e sale operatorie) procede a rilento. I daily workers (operai) sono piuttosto lenti e da domani probabilmente utilizzeremo più squadre su due turni (8-16 e 16-24). Ovviamente non sarò solo a seguirli (sarebbe impossibile).
Da due giorni i logisti stanno procedendo ad una riduzione del personale. All’ospedale di Kabul erano impiegate 350 persone per 50 posti letto: un’enormità. Ma nei tempi scorsi si era fatta una politica di sostegno alle famiglie aumentando il numero degli assunti che ora non è più possibile perpetuare.
Nel pomeriggio stavamo contrattando con un serramentista che ci deve fornire sei porte di alluminio (è l’unico che le fa qui a Kabul) ed in ufficio è arrivata una donna. Piangeva e ci ha fatto capire che il marito l’aveva picchiata e che aveva cinque figli. Ci ha fatto vedere anche delle foto dei figli. E’ stato molto difficile dirle che non potevamo fare niente e che la situazione era difficile per tutti. La miseria è così diffusa che ti dispiace anche se si è cercato di licenziare chi non faceva niente (alcuni infermieri si trovavano a dormire sui lettini, due ingegneri (si fa per dire) passavano il tempo a non fare niente senza essere nemmeno in gradi di prendere alcuna decisione, molte guardie servivano solo ad accompagnare lo staff internazionale mentre attraversano la strada tra casa e l’ospedale (distanti trenta metri) e così via. Molti si sono assembrati davanti l’ufficio per chiedere spiegazioni ma la situazione era insostenibile: veramente c’era troppa gente assunta. Molte donne erano dispiaciute: all’ospedale avevano dei rapporti pseudo normali con il mondo ma quando uscivano per tornare a casa reindossavano il burka e ritornavano in gabbia. Una gabbia senza diritti dove i maschi vanno in giro e loro stanno a casa, dove le famiglie quando vanno a fare i pic-nic si separano ed i maschi parlano tra loro e le donne, appartate, discutono tra loro.
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Negli ultimi due giorni ho dato a Gino una mano nel progetto del centro di cardiochirurgia che Emergency vuol fare a Khartoum in Sudan. Il centro dovrebbe essere il primo in Africa gratuito e di livello europeo e dovrebbe servire i nove paesi confinanti più il Sudan.
2 agosto 2003
Oggi sono andato a Sirobi (a due ore di macchina andando verso il Pakistan) per vedere il suolo dove si dovrebbe fare una scuola. Faceva un gran caldo e, per prendere la misure del suolo e fare una specie di piano quotato (con un tubo pieno d’acqua), mi sono fatto aiutare da un chirurgo e da una ginecologa. Sono arrivati una cinquantina di curiosi a vedere quello che facevamo ed i bambini si sono fatti fotografare (ovviamente tutti in posa e sull’attenti come fanno sempre).
La strada era molto bella (in mezzo a montagne alte come nella valle del Frigido a Massa) ma i colori erano molto diversi, il fiume quasi secco e senza un albero sulla pendici. I russi durante la guerra hanno distrutto tutte le foreste dell’Afghanistan per poter meglio controllare il movimento delle truppe interne ed i mujaidin. Quelle che era rimasto lo hanno usato le popolazioni locali per riscaldarsi e cucinare.
Immense montagne, immense distese, senza un albero. Solo rocce, pietre, strade senza asfalto, polvere.
4 agosto 2003
……. qui principalmente ci si fa il culo.
La mattina la sveglia è alle 7,30 si inizia alle 8,15 e si termina alle 16,00 (in teoria). In pratica si và avanti fino alle 19.00 (ieri abbiamo fatto due turni di lavoro ed abbiamo finito alle 23.00, domani idem). In questi ultimi quindici giorni sto seguendo i lavori di ristrutturazione della terapia intensiva e delle sale operatorie dell’ospedale.
Le lavorazioni sono divertenti: in otto persone per costruire un muro. Oggi erano presenti in cantiere diciotto persone (per fare il lavoro che in Italia farebbero in sei). C’è da uscire pazzi.
Per il resto non si esce mai da casa la sera (fossimo al grande fratello?) per ragioni di sicurezza ed anche perché non sapremo dove andare: non c’è un bar a pagarlo oro. Le persone che sono qui sono simpatiche e si conversa amabilmente. io sono il più meridionale ed abbiamo anche tre inglesi, una francese ed una canadese. Per il resto tutti italiani.
14 agosto 2003
Sono in Panscjir. Sono arrivato ieri sera con Sabina e Patricia. Sono le nove e mezza e sono andati tutti in ospedale. Qui a casa c’è solo un cleaner che sistema un pò. Sono quasi a metà del viaggio. Che dire! …………………….
Gli ultimi quindici giorni sono stati pieni di lavoro da fare. Abbiamo iniziato intorno al diciotto giugno ed il giorno 11 alle tre del pomeriggio abbiamo fatto l’inaugurazione del nuovo reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Kabul. Il lavoro è stato duro: sono arrivato a lavorare (il giorno prima) diciotto ore in un giorno con una pausa pranzo di mezz’ora e senza cena. E’ stata una grande sfida cercare di finire i lavori nei tempi previsti ma ce l’abbiamo fatta. Negli ultimi nove giorni preziosa è stata la collaborazione di Mirko (ex titolare di una piccola impresa di ristrutturazioni di appartamenti) il friulano. Anche il buon Ian (meccanico gallese) si è dato da fare. Negli ultimi due-tre giorni molti (chi più chi meno) hanno collaborato a portare a termine tutte le rifiniture necessarie per l’inaugurazione (c’erano chirurghi che portavano pacchi, Carla l’anestesista che dipingeva le cornici delle finestre, cleaner ed infermieri che stuccavano e/o reimbiancavano le zone che si erano sporcate) e vedere l’evolversi della cosa e la partecipazione di massa è stato il segno di un buon lavoro di squadra. Il giorno dell’inaugurazione c’era un casino pazzesco fino a dieci minuti prima che arrivassero le autorità. Si montavano macchinari, si definiva l’allaccio della linea elettrica (abbiamo avuto la corrente nel reparto solo alle 12.30), si finiva di dipingere le porte e gli stipiti, si stuccavano il bagno e le porte, si fissavano le mensole.
Poi si iniziava con mezz’ora di ritardo e tutto è andato bene. Agli intervenuti sembrava molto strano che dovessero cambiarsi per entrare in un reparto di terapia intensiva ma lo facevano con curiosità. Sono rimasti tutti abbastanza impressionati dal vedere le apparecchiature elettromedicali, l’ordine, i colori alle pareti, il pavimento in resina epossidica, i climatizzatori in piena efficienza, le linee elettriche dedicate letto per letto ecc….
Per la presentazione mi sono andato a lavare, mi sono messo una camicia bianca, un pantalone blu, mi sono pettinato. I miei compagni non mi riconoscevano lì per lì ed è stato divertente vedere le loro facce. Solo Sandro (il mio compagno di volo quando sono partito, sessantenne e nonno tre volte) mi ha fatto i complimenti perché ha capito il cambio di ruolo che in quel momento facevo passando da lavoratore edile che non ha problemi a fare qualsiasi lavoro pur di raggiungere l’obiettivo, al ruolo dell’ingegnere che presenta un opera di cui è stata direttore lavori. A molti altri ho fatto un impressione un pò strana come se volessi fare un pò lo snob, quello che si deve distinguere. Infatti ho notato un cambiamento nel feeling tra di noi come se per un momento non avessi più fatto parte del branco ma e stato solo un istante. Comunque è stato bello e gratificante che alla fine della presentazione ci siano stati gli “special greetings to dr. Carla, new director of the Intensiv Care Unit repart, and to the unbelivebol eng. Cioffi”. Sono quelle piccole cose che testimoniano che il tuo lavoro è stato apprezzato.
Perché si fa questo, perché si lavora per molte ore al giorno senza uno di stop per ventiquattro giorni filati: alla fine ti rendi conto che in questo paese vedono per la prima volta un reparto ICU come uno di un buon ospedale italiano con tutte le apparecchiature, i servizi e sopratutto i diritti che può avere un cittadino europeo. E tutto questo gratis come sempre dovrebbe essere la sanità. Senza distinzione tra i pazienti se non per le loro condizioni fisiche.
E’ aver contribuito a realizzare questo pezzetto di giustizia sociale che ti spinge a fare quello che fai, a non sentire la fatica, a non rimpiangere di aver perso dei giorni ed essere come una macchina senza né il tempo né la forza di aprire la tua anima alla passionalità, alla ricerca di quella parte di te che si è stratificata, che è sepolta sotto la cenere di un lungo periodo di impegno lavorativo, di un lungo periodo di problemi esterni che ti hanno succhiato l’energia come un vampiro e non ti hanno lasciato esperire quello che senti di voler essere.
Ancora una volta la macchina ma stavolta la causa è nobile, forte, emozionante, gratificante. Per ora non sento forte l’emozione, ma so che mi accompagnerà nel futuro, prossimo o remoto che sia.
Ora cercherò di rilassarmi qui per un paio di giorni, cercherò di sentire che c’è, dentro e fuori. Mi farò un vestito afgano, mi comprerò un paio di scarpe e con il pakul in testa mi confonderò con il paesaggio circostante, diventerò, anche se solo per poco, un afgano tra gli afgani che parlerà poco e quando incontrerà uno che parla inglese dirà ad un suo simile “cimega?” ovvero “che sta dicendo”.
15 agosto 2003
Panjir ore 17,30. Ieri è stata una giornata di riposo: ne avevo proprio bisogno.
Dopo la colazione della mattina mi sono piazzato in salotto. In casa non c’è nessuno. Il nostro cleaner che mi ha preparato la colazione è andato via. Mi stendo sul “divano” (un materassino a terra con cuscini colorati sulla moquette) e inizio a leggere un libro sui desaparesidos argentini.
………….
La storia raccontata da un ex capitano della marina militare argentina in galera all’epoca dell’intervista: Adolfo Scilingo (Il Volo, ed. Feltrinelli). Il libro racconta di come la dittatura militare abbia fatto scomparire tutti i cosiddetti sovversivi deportandoli, torturandoli ed infine uccidendoli. I deportati o morivano sotto tortura, o venivano fucilati oppure erano trasportati via aereo sull’oceano e poi lanciati in mare. I cadaveri venivano gettati in fosse comuni nascoste oppure cremati. I sequestri avvenivano per la maggior parte di notte per non farne partecipe la popolazione.
………..
Verso le 12,30 mi sono mosso da casa e sono andato all’ospedale a piedi. La strada è polverosa e passano poche macchine (è ora di pranzo). Ho il tempo di apprezzare il paesaggio ed il mondo che mi circonda. Il ritmo è lento ed il passo corto. Incontro pochi locali che mi salutano: salam, salam.
Sono quasi arrivato all’ospedale ed alle mie spalle mi suona la macchina che arriva da Kabul. Ci sono Rossella, Fabrizio, Mirko, Federico e koko Jalil. Si fermano e mi fanno salire. Koko mi saluta: brother! Ci abbracciamo.
Pranzo alla mensa dell’ospedale.
Il gruppo prosegue per un fap (first aid point) ad un’ora di macchina più a nord ed io decido di tornare a casa a piedi (pim pim). Esco dall’ospedale ed invece di andare a destra vado a sinistra incuriosito dal villaggio. Solitamente non si và mai in giro senza guardia ma qui in Panjir Emergency è molto benvoluta e c’è un grande rispetto ed amicizia per chi ci lavora. Così inizio a camminare. Ci sono vari negozi di frutta e verdura: il cocomero (la nostra melonessa, quella lunga e verde chiaro senza striature), le melanzane, il prezzemolo, le albicocche, i gelsi, le patate. Un furgoncino scarica altra verdura con l’aiuto di tutti.
Saluto sempre quelli che mi vedono e le loro facce sono sorridenti e contente per il saluto. Salam e la mano sinistra sul cuore. A volte a mano destra aperta in segno di pace. Due o tre bambini iniziano a seguirmi ed io li accarezzo sulla testa. Sono incuriositi. Anche una bambina dai capelli rossi mi segue ma a distanza di sicurezza. Non cammina con i bambini maschi. Avrà dieci anni ed ha già il velo bianco che le copre i capelli. Alle prime mestruazioni indosserà il burka che potrà togliere (se lo vorrà) solo quando sarà vecchia. Mi sorprende che non sorride mai: si mantiene a otto – dieci metri e guarda.
Macelleria: una bottega con dei ganci esposti fuori da cui penzolano parti di capra. Per terra quattro zampe pelose nere ed una testa con le corna e gli occhi vitrei. Mi giro e dall’altra parte della strada, sotto un albero, ne stanno scuoiando un’altra. Prima un giovane sui diciotto anni la scuoia, poi un suo coetaneo ne estrae le budella e le tira fuori passandosele da una mano all’altra fino a fare come se stesse sistemando una corda. La bottega del fabbro: due bambini uno di dieci-dodici anni che fa il capomastro ed uno di sette-otto è l’assistente. Il piano dove sorge il negozio è cinquanta centimetri più alto della strada ed il muretto che lo fronteggia è fatto con bossoli di carro armato con del cemento in mezzo. La bottega del sarto (ce ne sono tre) è condotta da un giovane che parla inglese (saprà venti-trenta parole) e mi fermo a fare conversazione: un pò in inglese, un pò in farsi, un pò in italiano, molto a gesti. Vuole che gli faccio una foto ed io non mi faccio pregare. Tutti vogliono che gli fai una foto e dopo ti dicono tasciakor (grazie) perché così hai avuto considerazione per loro. Molti ti chiedono di portargliene una copia e tu cerchi di spiegargli che non sarà facile ma ci proverai. Gelateria: vaniglia con geida (parassita intestinale) assicurata.
Proseguo ed i bambini sono diventati trenta. Uno con la bicicletta, tre con l’asino, uno con una pala. Uno usa la parte laterale di un falcetto per spronare l’asino a muoversi battendolo sul collo. Li vedo: sono tanti ed anche la ragazza con i capelli rossi è stata raggiunta da quattro amichette. Mi viene in mente il motivetto di una canzone di De Andrè (quella che dice che “una bambina canta la canzone antica della donnaccia quel che ancor non sai tu lo imparerai solo qui tra le mie braccia …………………….. li troverai là col tempo che fa estate e inverno, a stratacannare, a stramaledir, le donne il tempo ed il governo ……. diecimila lire per sentirti dire niccio bello e bamboccione……..”) che ho sentito nei giorni scorsi ed inizio a muovere i piedi ed a cantare il motivetto “lalalalà, lalalalà la la la lallalà” a voce alta ed i bimbi mi guardano incuriositi. E’ una magia: bastano due passi un pò da giullare, un sorriso ed un motivetto e tutti sorridono ed iniziano a cantare anche loro il motivetto. Alcuni iniziano a ballare, uno alza la pala e la muove a tempo gli altri ridono e li vedi contenti. Basta poco che cè vò! Mi vogliono fare partecipe dei loro giochi: uno mi invita a salire sull’asino l’altro a fare un giro sulla bicicletta. Salgo e faccio venti metri gridando ola, ola ola. Mi corrono intorno e ridono. Piano piano torno verso l’ospedale e una macchina arriva di corsa. Un bimbo di due-tre anni non segue il fratellino e rimane in mezzo alla strada. Solo per pochissimo non viene investito ed io impreco in turco-ostrogoto verso il guidatore. Il, fratello più grande dà due-tre scappellotti al piccolo che si mette quasi a piangere. Lo fotografo e gli mostro l’immagine sul display. Titti si accalcano per vedere e solo con fatica riesco a mostrare l’immagine al piccolo che comunque si nasconde dietro il fratellino. Proseguo e i bimbi pian piano si disperdono. Solo due mi continuano a seguire. Si alza il vento e tutto diventa polvere. Gli uomini si coprono il viso con la kefia. Sono fortunato: il vento soffia alle mie spalle ed io riesco, bene o male, a respirare e tenere gli occhi aperti. Dopo un pò il vento si calma ed io sono arrivato alla gelateria. E’ piena di cuccioli d’uomo che leccano il gelato. Una bambina ha un viso bellissimo e la immortalo.
Il tragitto a ritroso è quasi finito ma ho il tempo per fissare quattro volti, che tutti insieme non fanno quaranta anni, che ridono avendo alle spalle un vecchio carro armato che oramai fa parte del paese. L’immagine è emblematica della convivenza con venticinque anni di guerra. Bimbi e carri armati semidistrutti: il futuro ed il ………………????????
17 agosto 2003
Ieri ho passato la giornata con koco Jalil. Alle 10,00 siamo andati dal venditore di stoffa ad Anabah dove abbiamo scelto due colori diversi per fare due abiti. Stavo per mettere mano alla tasca con i soldi quando mi ha detto in italiano “aspetta”. Ha detto al negoziante che me li pagava lui e così ho risparmiato. Poi dal sarto di fronte che mi ha preso le misure con il quale Koco ha contrattato il prezzo. Poi con la jeep siamo andati a Gulbahar insieme a Nabiullah che ci faceva da autista ed ad una guardia che ci ha accompagnato.
Durante il viaggio in macchina mi sono guardato intorno: io e koco con il pakul, l’autista con il cappellino bianco, la guardia senza cappello. Musica afghana a palla, battute di mani a ritmo e risate. Eravamo quattro afgani.
Questi sono i momenti che ti rendono sintonico con l’ambiente; i momenti che ti mettono addosso un’altra pelle che aderisce alla tua fino a coprirla e piano piano ti entra dentro il calore, l’odore, il sudore rendendoti parte di quel popolo al punto di non riuscire più a distinguere se lo straniero sei tu e gli altri che sono con te oppure il popolo che ti circonda, l’afgano sei tu , il tuo gruppo, la gente per la strada. Quella pelle in quel momento diventa un altro strato che, se riesci a fissare bene continuando a esperire passione, continuando questa osmosi tra il tuo dentro ed il tuo fuori, rinfoltisce la cipolla della tua anima facendola diventare un poco più grande, un poco più esperta. Per quelle tre ore eravamo un gruppo di amici che insieme vanno a fare un servizio e dividono la risata ed il cibo.
In verità speravo o fantasticavo che stessimo andando in montagna ad incontrare i fratelli mujaidin per bere insieme un ciai (tè) seduti per terra con affianco un kalasnikof od un rpg e per parlare di lotta di liberazione. Mi sentivo integrato in quel modo di essere della gente del panjir, di quella gente che ha resistito ai Russi, che non è disposta a farsi piegare dagli Stati Uniti.
Il risentimento verso gli “americani” è forte: dalle promesse non mantenute all’arroganza della gente che incontri. Per esempio in un piccolo supermercato a Kabul abbiamo sentito la persona prima di noi in fila alla cassa (un militare) dire alla cassiera: fai poco la spiritosa perché se arriva Bush vi sterminiamo tutti. Forse un episodio non è indicativo di una tendenza generale, ma tant’è. Sono sempre loro (gli occidentali) che hanno portato i prezzi delle case alle stelle. Non si preoccupano minimamente che così facendo stravolgono il mercato interno, stravolgono l’economia del popolo: loro possono pagare e pagano più di tutti (specialmente i militari).
………..
Il viaggio fino a Gulbahar è durato cinquanta minuti. Strada sterrata con il fiume sulla sinistra e le montagne sulla destra. Il fiume panjir è piuttosto impetuoso ed e spesso solcato da rapide che ne rendono la superficie schiumeggiante. Arriviamo al posto di blocco con la sbarra posto all’ingresso della valle. Come sempre un gruppo di quattro-cinque mujaidin sorveglia chi passa. Vedono la macchina di Emergency, koco Jalil e gli altri e ci fanno passare senza problemi. Sotto la panca dove sono seduti ed immediatamente dietro fanno capolino mine, lanciarazzi, bombe varie. Il primo pezzo della strada che entra nella valle è stretto e compreso tra il fiume e ripide pendici della montagna. Basta pochissimo per far saltare la strada e rendere impraticabile l’unico accesso.
Immediatamente prima del villaggio e dopo il checkpoint fa bella mostra di se un carro armato che aveva tentato di entrare nella valle ma la sua presenza lì la dice lunga sulla difficoltà dell’operazione.
Arriviamo al negozio (la solita baracchetta sulla strada), ci sediamo, vediamo le stoffe, contrattiamo, compriamo ed andiamo via. Alla periferia del villaggio ci fermiamo ad un ristorante afgano. Una stanza stretta e lunga con due pedane rialzate ai lati ed un corridoio al centro. Ci si leva le scarpe e ci sediamo a gambe incrociate sulla pedana di destra. L’oste ci srotola davanti un pezzo di pelle rossa sul quale appoggia il pane, i kebab, l’insalata, il tè. Mangiamo, rigorosamente con le mani, e ridiamo un pò. Sul fondo della sala due ragazzi sono intenti a tagliare la carne di una capra intera per farne kebab. Foto ai presenti, all’oste, ai bambini. Sulla strada del ritorno ancora musica, battute di mani. Facciamo uno stop ad un cosiddetto ristorante del panjir. E’ un rettangolo di due metri per tre circondato da un muretto in pietra alto sessanta-settanta centimetri con una copertura in stoffa verde piuttosto malridotta. Pavimento in ciottoli di fiume con qualche scorza di melone qua e là e il ricordino di qualcuno a cui scappava la cacca. Ci sediamo su due scatole di munizioni (vuote) di colore verde e iniziamo a parlare di Karzai (presidente del paese): “è un venduto agli americani, pensa solo ai suoi interessi e non a quelli del popolo” e così via. koco Jalil ci racconta che loro non hanno paura perché sono forti, perché sulle montagne “rockets ast, bisior ast, inschallah” (i missili ci sono, ce ne sono molti, se dio vuole) e chiunque prova ad entrare lo abbattiamo con l’rpg (lanciamissili). koco Jalil è stato un combattente insieme a Massud ed ha abbattuto due aerei. Tutti si infervorano parlando della forza dei mujaidin e dei “pingia u du” (B52, aerei bombardieri) che non conquisteranno il panjir.
Torniamo a casa.
29 agosto 2003
Oggi è venerdì ed è vacanza. Il logisti hanno il loro giorno off. In Afghanistan il venerdì corrisponde alla nostra domenica. In questa parte di mondo ci sono diversità anche nelle date. Infatti qui siamo nel 1349 e da noi nel 2003. Un pò sembra di viverla questa differenza vedendo le usanze e le condizioni di vita di questo popolo. In effetti Kabul, come tutte le capitali del mondo extra occidentale, è un coacervo di modus vivendi, un fritto misto di pulsione verso la modernità e rispetto delle tradizioni. Dalla donna in burka che ti chiede l’elemosina o cerca qualcosa tra i rifiuti, all’uomo in giacca e cravatta che tu parla di sistemi di generazione elettrica o di strutture prefabbricate. La presenza del popolo e dell’uomo d’affari. Il popolo che vive di piccolo, piccolissimo commercio al dettaglio come il fruttivendolo, il macellaio, il riparabiciclette, il venditore di bombole e quello di meloni, che vedi collocati in baracche di legno e lamiera o in container piazzati a bordo strada ed adattati a negozi. I ragazzini dagli otto ai sedici anni che vendono le cartoline, che imparano un mestiere nelle botteghe artigiane, che su un carretto fanno le patate fritte e le vendono dentro un pezzo di carta di giornale. Il popolo che viaggia nei pullman strapieni con la gente appesa alle porte d’ingresso, che viaggia sui pullman e sui camion seduti sul tetto, che prendono il taxi in dieci con i più piccoli e le donne che si mettono nello spazio dei bagagli. Il popolo dei burka e delle barbe. Il popolo dei poveri e degli storpi che si mettono in mezzo alla strada, dove ci sono i dossi e le macchine quasi si fermano, per chiedere l’elemosina.
Un popolo che ha un sapore antico, che ha combattuto o subito una serie di guerre durata venticinque anni, che ha subito il disboscamento pressoché totale del paese per ragioni di tattica militare, che non ha acquedotti, fogne, linee elettriche. Un popolo che nonostante ciò è fatto di gente allegra, di bambini che sorridono e che giocano, di mujaidin che cantano.
L’ immersione in questa realtà ti pone l’eterna domanda (parafrasando una canzone di Gaber): da quale parte del cancello?
Da quale parte c’è la pazzia, da quale parte c’è la gioia, da quale parte c’è il sentirsi vivo, vitale, da quale parte c’è la civiltà?
Il nostro egoismo, il nostro egocentrismo, il loro dramma collettivo, il loro sorriso, il loro canto.
Il nostro avere, il loro essere.
C’è di che pensare!!!!
2 settembre 2003
Sono arrivato adesso a casa ……………………..Alle 18,30 abbiamo partecipato ad un lungo ed un pò noioso meeting sulla sicurezza: non si può andare in giro senza il telefono, si deve sempre comunicare dove si va e farsi vedere al ritorno ecc… tutte regole che erano già note.
In effetti in questo ultimo periodo ci sono più scaramucce del solito. La sera si vedono e sopratutto si sentono volare aerei ed elicotteri su Kabul; stanotte ci siamo svegliati in cinque o sei per una scossa che ha fatto muovere il letto (a me e non solo a me, è sembrata l’esplosione di qualcosa ma ci hanno detto che era una scossa di terremoto); due giorni fa sono stati uccisi due americani di una ong sulla strada per Kandahar, qualche giorno fa sono entrati duecento uomini armati nel deserto sulla frontiera sud ed oggi sono stati inviati cento uomini delle forze speciali Usa. Insomma c’è fermento anche perché il governo sta cercando di allontanare i mujaidin dal governo stesso (ne fanno parte alcuni ministri) ma sono loro che sono rimasti qui a combattere durante i russi ed i talebani ed ora arrivano tutti afgani che sono stati fuori dal paese durante i casini per prendersi il potere e fare affari.
E così via.
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Ieri ……… stavo pensando che “settembre è il mese dei ripensamenti sugli anni e sull’età, come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità” (Guccini). Non tanto per i ripensamenti (che pure ci si trova a fare), quanto per le scintille. Si ………, quelle scintille che ti permettono di essere oggi carne e domani pesce, di prendere quello che oggi ti offre la vita e di non rifiutare quello che ti offrirà domani. Leggerezza e coscienza di se, di cosa si è, di cosa si vorrebbe essere, del proprio presente e delle proprie proiezioni. Non c’è perdita nel divenire ma solo acquisizione, esperienza, conoscenza. L’importante è sempre tenere presente che quello che è oggi non è detto che sia domani e se lo è, è perché, in fondo, si è scelto che lo sia e nessuno può modificare ciò. …….. pensa che io, che tornando dall’africa, sarei voluto rimanere lì, avrei voluto fare quell’esperienza di vita e di lavoro, l’ho fatta tredici ani dopo ma con la stessa voglia di conoscere, di sperimentare, con la stessa leggerezza nella partenza e nel decidere che, fanculo, per tre mesi potevo chiudere bottega e chi si è visto si è visto! E’ facile, basta sentire che in quel momento il tuo essere, il tuo divenire, è prioritario rispetto al vissuto quotidiano. Perciò ..………, burubakai (vai con dio) and good luck. Inshallah (se dio vuole) fardo ast hoop ros (domani sarà una buona giornata).
6 settembre 2003
Oggi è piovuto su Kabul. Dopo quattro lunghi mesi il cielo si è fatto minaccioso e grigio ed il vento ha iniziato a soffiare come presagio di tempesta. Eravamo in ufficio io e Luca e stavamo parlando con i responsabili di un provider internet afgano. Abbiamo visto il cielo passare dal solito colore grigiastro che domina costantemente la città ad una strana luce giallina. All’inizio sembrava la solita tempesta di polvere che spesso investe la città ma poi il colore è virato verso il giallo ocra intenso. Era come se nell’aria avessero buttato una polvere colorata, era come se qualcuno avesse cambiato il vetro della finestra e ne avesse messo uno sul quale aveva spennellato la tintura di iodio. Colore forte. Le tempeste qui sono così. La polvere, accumulata in mesi di siccità, si alza nel vento e la gente si copre il viso con il fazzoletto che sempre li accompagna (e che loro usano per tutto, dal pulirsi il viso e le mani, ad asciugare i piatti, a soffiarsi il naso), le botteghe socchiudono le porte, i bambini continuano a giocare. La polvere che viene dalle montagne è una costante di tutto l’Afghanistan. La vegetazione è poca e l’acqua anche. Trenta anni fa, prima dei russi e dei talebani, mi hanno raccontato che c’erano molti più alberi, che i sistemi di canalizzazioni erano efficienti e l’irrigazione veniva garantita dal sapiente e laborioso accanimento della popolazione. Poi la guerra. I canali distrutti, gli alberi tagliati, i carri armati distrutti ed abbandonati, le mine disseminate. Questo è l’Afghanistan. Pietre bianche e rosse sui bordi delle strade (rosso lato minato, bianco lato sicuro), donne che chiedono aiuto, che chiedono soldi, donne che arrivano in ospedale crivellate di colpi dal figlio o dal marito, bambini che giocano, bambini che sono sventrati, amputati, evirati dalle mine. Rabbia, rabbia, rabbia, rabbia, rabbia ….
Ho divagato, sono passato dalla pioggia alla rabbia. Forse perché quello che ho visto, quando sono uscito dall’ufficio per fotografare quel cielo giallo ed è cominciato a piovere, è stata gioia, curiosità felicità. Il nostro personale afgano è uscito dalle loro stanze per vedere la tempesta e sui loro volti vedevi quel sorriso che hanno i bambini quando fai loro un regalo gradito, quando sono contenti del giocattolo. Erano lì che guardavano la pioggia e dicevano: hoop, bisior hoop (bene, molto bene). E’ stato bello vederli contenti per quello che da noi è vissuto come una seccatura, come fonte di problemi. Loro non hanno le fogne, gli acquedotti, le strade asfaltate, gli orpelli che caratterizzano il nostro mondo e sono felici per la pioggia, per quella pioggia che significa vita in un paese arido e secco. Ho divagato, sono passato dalla pioggia alla rabbia. Forse perché quello che ho visto, quando sono uscito dall’ufficio per fotografare quel cielo giallo ed è cominciato a piovere, è stata gioia, curiosità felicità. Il nostro personale afgano è uscito dalle loro stanze per vedere la tempesta e sui Ho divagato, sono passato dalla pioggia alla rabbia. Forse perché quello che ho visto, quando sono uscito dall’ufficio per fotografare quel cielo giallo ed è cominciato a piovere, è stata gioia, curiosità felicità. Il nostro personale afgano è uscito dalle loro stanze per vedere la tempesta e sui loro volti vedevi quel sorriso che hanno i bambini quando fai loro un regalo gradito, quando sono contenti del giocattolo. Erano lì che guardavano la pioggia e dicevano: hoop, bisior hoop (bene, molto bene). E’ stato bello vederli contenti per quello che da noi è vissuto come una seccatura, come fonte di problemi. Loro non hanno le fogne, gli acquedotti, le strade asfaltate, gli orpelli che caratterizzano il nostro mondo e sono felici per la pioggia, per quella pioggia che significa vita in un paese arido e secco.
Bene: leggerezza, smaterializzazione, gioia.
7 Settembre 2003
Voglio parlare della rabbia che ti assale quando vedi i volti della gente. Nei due mesi passati questo sentimento ti è penetrato spesso.
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Al pronto soccorso una donna è ricoverata da poco. Sono con Gianluca lì davanti ed entro. A vederla sembra piuttosto anziana ma ha solo quarantacinque anni. Ha tredici buchi sparsi su tutto il corpo. Il figlio ha utilizzato una pistola per ridurla così. E’ nuda sulla barella e si guarda intorno. Dottori, infermieri, inservienti e poi noi. I suoi occhi incrociano i miei. Il suo sguardo è di quelli che non puoi dimenticare: pietà, vergogna, aiuto. Sentimenti che tutti insieme escono fuori e tu lì impotente. In quel momento capisci cosa vuol dire per una donna afgana farsi vedere nuda. In quella situazione nella quale non può sottrarsi allo sguardo. In quel momento nel quale viene fuori tutta la differenza culturale tra chi guarda quella nudità con un senso di pietà, di tristezza, di impotenza e chi quella nudità la vive come vergogna, come violazione del proprio corpo e della propria anima. Questo è quello che ho sentito. Io, un estraneo al gruppo di medici che, giocoforza, queste sensazioni non le vive. Sono andato via e dopo poco l’hanno portata in sala operatoria. Marco l’ha messa sotto i ferri. E’ intervenuto prima sull’intestino, poi sul fegato, ma durante l’operazione è morta. Quegli occhi, però, non si possono dimenticare.
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Un bambino è arrivato durante il pranzo. La radio annuncia “mine ingiury”. I medici vanno in opd. Farid (ma potrebbe chiamarsi, mohamed, nabihullah, najib o con qualunque altro nome) stava giocando inseguendo una capra. Cadendo è esplosa la mina. Quello che è arrivato all’ospedale è un bimbo di sette anni con il braccio destro a metà. L’avambraccio manca e dal gomito parte un pezzo d’osso e due resti di muscoli. Gli occhi: spappolati. L’oculista deve rimuoverli entrambi. Poi gli cuce le palpebre per evitare infezioni e permettere, nel futuro, la posa delle protesi. Le schegge sono sul viso e sul petto. Vengono rimosse e suturate le ferite. Fuori dalla sala operatoria il padre aspetta. Trepidante. Al termine il dottore esce e lo incontra. Le parole sono difficili ma l’espressione non lascia dubbi. Carla l’anestesista è presente alla scena. Saputa la notizia, l’uomo non resiste. Si strappa i vestiti e scoppia in un pianto disperato: suo figli resterà cieco ed amputato per sempre. Qualche giorno dopo lo vedo. Spinge la carrozzina per i viali dell’ospedale con una faccia che esprime dolcezza e dolore insieme. Incontro Marco. Mi racconta che il giorno dopo l’operazione lo ha implorato di fare qualcosa perché non succeda più. Lo ha implorato di fare qualcosa per eliminare le mine.
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Alim. E’ arrivato qui da più di due mesi. L’ho visto quando sono arrivato e l’ho rivisto oggi. La sua storia è fatta di un incontro con una mina mentre correva. Ho visto le foto di quando è stato ricoverato. Immagini per anime salde. Le due gambe saltate sopra il ginocchio e le schegge che l’hanno preso dal basso verso l’alto. Amputazione di quello che restava degli arti inferiori e perdita delle funzioni genitali. Amputato ed eunuco. La sedia sarà la sua compagna per la vita. Quando lo incontro facciamo a braccio di ferro. Ci appoggiamo sulla coperta che gli copre le gambe (????) e lui vince quasi sempre. Usa due mani ed io una sola. Il gioco è più vero e mi sorride. Mi batte il cinque e mi tira la barba.
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Questo è un pezzo della realtà di questa terra, di questo mondo così lontano da noi che ti fa sentire diverso ma che ti stimola in un modo feroce a fare qualcosa.
Il lavoro qui è duro. Si inizia alle otto e si dovrebbe finire alle sedici ma spesso si va avanti fino alle diciannove. Alcuni giorni si termina alle ventidue. Essere qui ti fa sentire partecipe di qualcosa di grande. Ti fa sentire che l’agire, il fare, è quello che può cambiare il mondo. Per quanto piccolo sia il contributo che si può dare è sempre un grande momento di emozione. Essere qui, costruire, realizzare, pensare a fare le cose utilizzando il meglio di quello che possiamo offrire. Costruire con le tecniche dell’edilizia bioclimatica, utilizzare sistemi di cogenerazione per produrre contemporaneamente calore ed energia, valutare la possibilità di mettere un piccolo generatore eolico. Parlare con i tecnici dei fornitori e spiegargli che ci sono molti modi per far si che questo paese cresca, si rimetta in piedi ma tendendo ad utilizzare quei metodi costruttivi e quei sistemi impiantistici dei quali parliamo in Italia quando pensiamo al cosiddetto sviluppo sostenibile. Questo è il sentire di partecipare all’evoluzione di un paese. Questo è un forte modo di fare politica, quella con la P maiuscola. Mi ritornano in mente le discussioni, le miserie della cosiddetta politica italiana e salernitana. L’occupazione delle poltrone, il fare politica (partitica-personalistica) perché, forse, non si è capaci di fare altro, perché, forse, non si è mai fatto altro mestiere che quello del cosiddetto politico. Le battaglie delle tessere per avere un posto al sole. Gli elenchi per fare trecento tessere in una settimana.
Le parole, le parole, le parole. I fatti ??????
Qui ti rendi conto di quanto poco siano le parole, di quanto vuoti siano i discorsi, se non sono collegati ai fatti, se i fatti non sono collegati all’idea ispiratrice, se si perde di vista l’obiettivo generale e si guarda al proprio orticello o a quello del potente di turno. Qui i volti dei bambini, la sofferenza dei genitori, il dolore delle donne, ti fanno sentire quello che sei: un piccolissimo pezzetto di un qualcosa di grande dove tanti non hanno e pochi hanno, dove i pochi vivono alle spalle dei molti e giocano a fare la guerra per conservare le proprie pseudocomodità, per conservare lo status quo. Noi facciamo parte di quei pochi ma spesso lo dimentichiamo o fingiamo di ignorarlo.
Forse, anzi sicuramente, è ora che apriamo gli occhi.
9 Settembre 2003
Oggi e’ l’anniversario (il secondo) della morte di Massud. Una figura molto importante qui in Afghanistan. Direi che dalla sua morte ha assunto il significato di un simbolo. L’uomo che non si e’ piegato ai russi ed ha condotto la resistenza; l’uomo che ha condotto la guerra contro i talebani. L’unico uomo che aveva questo paese in grado di mettere d’accordo le varie etnie che ci vivono. L’unico che aveva veramente a cuore le sorti del suo paese e che era in grado di raccogliere i consensi intorno alla sua figura. L’unico che potesse rappresentare questo paese guardando agli interessi interni. Questo uomo e’ stato ucciso il nove settembre del duemilauno: due giorni prima dell’attacco alle torri gemelle. Poche settimane prima che gli “occidentali” decidessero di fare la guerra per “liberare” questo popolo dai talebani. Che casualità, che fatalità.
Oggi la giornata e’ trascorsa facendo il calcolo di un serbatoio soprelevato per l’acqua da realizzare nell’ospedale del Panjir. Alle sedici a casa per una doccia ed alle diciassette si parte per Anabah. Domani ci sarà la commemorazione della morte del “comandante” sulle montagne della inviolata valle del panjir. Partiamo con due macchine: in una Kate con l’autista, nell’altra io, koco Jalil alla guida ed altri due dipendenti dell’ospedale di Kabul. Partiamo da casa e Kabul e’ piena di bandiere nere: lutto e ricordo in onore del comandante. Le foto di Massud sono sulle bandiere: sulle porte dei container che fungono da negozio, sulle porte dei ferramenta, dei panettieri, delle scuole. Anche i carretti della frutta o dei ciabattini hanno la bandiera nera. Uscendo da Kabul la sensazione e’ un misto tra la gioia e la melanconia. Ancora una volta il senso del viaggio prende il sopravvento. Ancora una volta l’anima del ribelle che e’ dentro di te, viene fuori. Ancora una volta ti senti afgano e mujaidin. Il pakul ci contraddistingue ed in macchina solo io lo indosso: koco Jalil se lo e’ levato e lo tiene su una gamba. Il pensiero che ti pervade e’ a metà strada tra una domanda ed una certezza: se fossi nato qui sarei stato un “partigiano”? La certezza ti viene dall’anima, la domanda dal cervello. Si; Avrei avuto la forza di indossare un arma? Il paesaggio intorno e’ quello della pianura di sciamali con lunghe ombre: siamo all’imbrunire. Da lontano svettano le montagne e la polvere alzata dal vento, seppure rende l’aria non limpida, non ne diminuisce la forza. Le montagne: il regno dei mujaidin. La musica della cassetta mi sembra ormai familiare e ne canticchio il motivo. Con le mani ne seguo il tempo battendole sulle gambe. Ci sono molti uomini armati lungo la strada ed u carri armati, e le batterie di cannoni, sembrano (e forse lo sono) più lucide e maggiori di numero. Guardo fuori dal finestrino: la luna e’ sorta e la luce del giorno e’ ormai fioca. Di fronte a me il declivio di pietra e polvere che sfocia nella pianura verde di viti e salici; poi le montagne; su, in alto, appena sopra le vette, la luna piena. E’ la luna degli eroi. Quella che protegge chi crede in se stesso per il bene supremo: quello della libertà del suo popolo. Al check point, all’ingresso della valle, la sbarra e’ abbassata. I controlli sono stretti e fiscali. Vedono le macchine di Emergency, ci salutano, aprono il passaggio e ci fanno passare. Siamo amici. Capisco il senso della parola fratello: non solo figli di stessa madre ma anche figli degli stessi desideri, degli stessi dolori, dello stesso campo di battaglia. E’ un onore quando koco Jalil mi chiama brother. Nella sua percezione mi ha compresi tra i mujaidin. Probabilmente e’ solo quello che credo, quello che sento in questo momento ma e’ bello provarlo. La sensazione e’ quella che ti rimane dentro, quella che un domani ti accompagnerà e ti farà sempre ricordare alcuni sprazzi di luce da mujaidin.
Un altro pezzo di pelle, un’altro pezzo di vita.
10 Settembre 2003
Oggi siamo andati alla tomba di Massud. Io, koco Jalil ed un cleaner della casa di Kabul. Ieri c’è stata la commemorazione a Kabul ed oggi c’è la cerimonia in Panjir. La sua terra, la sua casa, la sua fortezza. Davanti l’ospedale due ali di bambini hanno i cartelli di benvenuti in Panjir e le foto di Massud listate a lutto. In un primo momento questo mi colpisce positivamente. La gioia dei bimbi, l’affetto per questo personaggio, lo sguardo compiaciuto dei grandi. Poi, per un momento, la ragione mi porta a pensare che è tutto troppo regolare, organizzato: vero o falso? Spontaneità o propaganda? E’ solo un momento. La passione, il mujaidin, prendono il sopravvento e sono contento di vedere l’affetto. Il resto scompare. koco Jalil guida, io affianco, il cleaner dietro. Il viaggio è piuttosto silenzioso. Solo alcune parole tra loro, un pò di dari. Qualcosa la dico anch’io. Ovviamente in dari. Ci sono molti carri armati, cannoni, lanciamissili ed altra artiglieria pesante lungo la strada. Tirata a lucido. Mujaidin, strong ast, bisior strong. C’è molta polizia venuta da Kabul. Un camion sparge acqua sulla strada sterrata. Deve venire il presidente Karzai.
La gente di questa terra non ama Karzai. Non ha combattuto, non era in Afghanistan durante la resistenza contro i russi e contro i talebani. Era in occidente. Era ed è un buon amico della CIA. Gli americani (ovvero gli statunitensi) non sono amati. Molti me parlano male. Molti malissimo. La gente sente, vede, che girano armati fino ai denti, che trattano i locali con prepotenza. Quelli più istruiti ed informati capiscono che il loro modo di vivere e di essere è troppo lontano dal loro, che tramite la guerra cercano di controllare le ricchezze del paese. E’ notizia di ieri quella del gasdotto che deve attraversare l’Afghanistan per evitare tremila chilometri in più. E’ notizia di ieri che Massud, diversi mesi prima dell’11 settembre disse agli agenti USA: venite in Afghanistan a liberarci ed avrete lo stesso trattamento che hanno avuto i russi. E’ notizia di oggi che gli USA vogliono costruire un oleodotto che collega l’Irak con Isdraele per portare il petrolio nel mediterraneo. Quanto dovrà costare all’occidente il mantenimento del nostro tenore di vita? Quanto costerà mantenere gli attuali livello di consumo energetico? Per quanto sarà possibile che uno statunitense consumi 8 tep all’anno, un europeo 4 ed un afgano 0,1
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In macchina guardo la valle. Il sole splende luminoso, l’aria è limpida e non calda, il fiume limpido. Ci sono altri bambini, ci sono molte bandiere nere con la foto di Massud, ci sono altri poliziotti. Sotto la tomba koco Jalil parla con le guardie del posto di blocco. Solo pochi hanno l’accesso all’area con la macchina ma noi passiamo. Ok fratello. Salendo Abul (il cleaner) piange. Mi giro. Il suo viso è composto, solo le lacrime escono dal volto forte. Lasciamo la macchina e saliamo. Il picchetto d’onore è all’ingresso ed all’uscita del mausoleo. Fiori, una corona, persone che pregano. Restiamo solo un quarto d’ora. L’omaggio è reso. Sul piazzale antistante ci sarà la cerimonia di commemorazione ma i miei compagni non la degnano di uno sguardo. Il ricordo è dentro ed il fuori può solo rovinarlo. Andiamo via.
Al ritorno ci siamo fermati sul fiume a mangiare l’uva. Si è avvicinato un mujaidin che faceva parte di un gruppo vicino. Dividiamo la frutta. Mi guarda e mi ha chiesto se ero un fratello. Col pakul e la faccia che avevo assunto, in quel momento eravamo compagni. koco risponde “yes, mujaidin ast” allargando le braccia in segno di ovvietà e scoppia un sorriso.Compagni di sensazioni. Bello e forte. Torniamo all’ospedale e parlo con Kate della trasferta. Non ha dubbi su cosa io abbia potuto sentire. Vado a mangiare con Ian, Mirko, Alessandra, Sabina. Parlo della sensazione, del mujaidin, dell’eroe. Parallelo Massud – Che. Due uomini di guerra, due eroi. Chi è un eroe? Chi combatte per i suoi ideali, chi è disposto a prendere le armi per la libertà oppure chi per quagli ideali non userebbe mai la forza. E’ più eroe il Che o Gandi? E’ più eroe un qualsiasi soldato che crede in quello che fa, nei motivi per i quali combatte oppure un missionario che per quella idea è disposto a sacrificare la propria vita? La idea comune di eroe, quella del combattente, è giusta o sbagliata? Domande che modellano il pensiero, il sentire. Dubbi che filtrano la coscienza. Se fossimo nati in questo paese, se il destino avesse voluto che fossimo stati tefli (figli) e poi bacia (ragazzi) in Afghanistan avremo avuto questi dubbi? Se avessimo visto le bombe distruggere le nostre case, le nostre famiglie, se avessimo vissuto la repressione dei russi e dei talebani, saremo saliti sulle montagne, avremo indossato un kalasnikof, avremo usato un rpg?
Davvero nascere è una questione di culo!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Da leggere, con il fiato sospeso e con grande rispetto. Grazie per avermi regalato una grande emozione…. l’emozione che solo le parole scritte di getto sanno dare.
Meraviglioso…una descrizione che ti lascia senza fiato…Lo si legge di getto, tra un sorriso amaro ed una lacrima. Grazie per averci regalato queste perle. Si, ci vuole culo a nascere e tanta forza per sopportare.